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Valerio Cappelli intervista Francesco Maria Perrotta sul mondo dei festival

Il noto giornalista Valerio Cappelli intervista Francesco Maria Perrotta, presidente di ItaliaFestival: la realtà che associa rassegne musica teatro e danza, capaci di generare turismo culturale e muovere l’economia diffusa. Un fenomeno in crescita, una realtà viva in Italia e in Europa.

Amadeus, l’autorevole magazine di musica che da 30 anni con rigorosa passione propone il meglio della grande musica, oltre alle consuete rubriche e ai tanti approfondimenti, nel numero di luglio si è arricchito dell’inserto “Speciale Festival d’Estate”: tappe, riti, ispirazioni e passioni del viaggiatore musicale su e giù per la penisola.

Francesco Maria Perrotta, 52 anni, nato a Paola in provincia di Cosenza, è da otto anni presidente di Italiafestival, organismo nato in seno all’Agis e attivo da 32 anni. Oggi rappresenta 29 Festival italiani e sei reti di Festival che operano nell’ambito musicale, teatrali, delle arti performative e della danza, della letteratura e di altre manifestazioni artistiche.

I soci (dal Rossini Opera Festival di Pesaro al Festival di Spoleto, dal Festival Verdi di Parma al Ravenna Festival, da Napoli Teatro Festival a Macerata Opera Festival, dal MiTo al Festival pianistico di Brescia e Bergamo passando per il Mittelfest e il Plautus Festival) operano su tutto il territorio in un mix tra Festival conosciuti e altri meno conosciuti.

La mission di Italiafestival è di consolidare sempre più una rete che tuteli e promuova i festival nazionali, anche attraverso una corretta strategia di fundraising e di internazionalizzazione, oltre che di tutela degli interessi degli associati.

Artisticamente, Perrotta si è formato alla Sagra Musicale Umbra, negli anni successivi alla scomparsa del grande Francesco Siciliani: in quella rassegna collaborò con un altro illustre operatore della cultura, Massimo Bogianckino. Perrotta si definisce con un po’ di civetteria un chitarrista classico mancato:
presto prese il sopravvento in lui la carriera manageriale.

AMADEUS LUG 2019 SPECIALE FESTIVAL ESTATE

Il turismo culturale è un fenomeno di nicchia?
«No, e il mondo dell’imprenditoria se ne sta accorgendo. Parliamo di arti performative in genere, quindi di Festival di musica, teatro, danza. Un fenomeno in crescita. Il punto vero è rappresentato dal fatto che oltre alle grandi città con una copertura turistica di base, implementata da musica e teatro, ci sono le piccole città in via di espansione legate a contesti territoriali periferici, penso al Festival della Valle d’Itria o al Festival dei teatri all’aperto a Sant’Arcangelo di Romagna, che due anni fa ha vinto un premio
europeo importante».
Dunque, una grande opportunità per l’Italia.
“Forse c’è un ritardo accumulato dalle istituzioni italiane, il nostro ministero di riferimento ha subìto un passaggio importante col distacco delle deleghe del turismo, che sono state assegnate da questo governo al ministero dell’Agricoltura. La motivazione ufficiale è che l’agricoltura è un segmento importante del nostro paese, ma la decisione è di carattere politico”.
E cosa è successo?
«Anzitutto ha creato un’ impasse pazzesca, un blocco dovuto alla riorganizzazione del ministero dell’Agricoltura. C’è stato un ricorso da parte di alcune istituzioni pubbliche, il Consiglio di Stato ha bloccato il passaggio delle deleghe, ma il governo è andato avanti e ora sono pervenute al ministero dell’Agricoltura».
Quali conseguenze ha portato?
«Il problema è in chiave sinergica, molti Paesi europei fanno politiche di sviluppo legando turismo e cultura, è uno dei punti su cui stiamo lavorando in una rete europea».
Perrotta, sta dicendo che l’Italia, cioè un Paese come l’Italia, va in una direzione contraria rispetto alle altre nazioni?
«Sì, ora noi auspichiamo che queste scelte politiche non diventino un freno, al di là dei ritardi accumulati.
Ci aspettiamo che il ministero dell’Agricoltura ci chiami, noi come altri operatori, per impostare una politica di sostegno ai contenitori culturali che fanno turismo. Ad oggi, non abbiamo avuto risposte».
Le arance, per i nostri politici, sono più importanti di Puccini?
«Se vogliamo estremizzare, sì. Le arance vengono dalla Sicilia come il Teatro Massimo di Palermo e il Bellini di Catania. Non possiamo fare altro che operare in modo sinergico. Tre anni fa in occasione dell’expo “Coltiviamo Cultura” la filiera di prodotti eno-gastronomici era stata messa in relazione ai Festival. Noi, con Agis e ItaliaFestival, avevamo una convenzione in modo da presentarci nelle convention più importanti del turismo mondiale. Siamo stati a Berlino a Mosca, a Dubai che nel 2020 ospiterà l’Expo. È andata bene i primi tempi, poi di fatto l’iniziativa è stata congelata, l’Enit ha una nuova governance e purtroppo anche lì si sono accumulati ritardi. Spero sia un problema organizzativo e non una scelta politica. Lo stesso governo dice che l’elemento macroeconomico più importante è il turismo».
Qual è l’indotto complessivo dei Festival?
«Noi diciamo che ogni euro investito in cultura ne genera sul territorio dai tre ai cinque. In particolare, ogni euro speso nella gestione di una struttura cinematografica o teatrale genera 1.7 euro di produzione di beni intermedi sul territorio e 2.4 di valore aggiunto. Con una spesa complessiva di gestione pari a 13.7 milioni di euro si attivano 23.8 milioni di produzione di beni intermedi e 10.9 di valore aggiunto.
Quanto ai Festival, 23.9 milioni di spese di gestione innescano 41.2 milioni di produzione e 18.9 di valore aggiunto.
L’indotto è un elemento fondamentale. Al Rof, 18.260 presenze e 1.391.137 euro incassati nel 2018 (i dati più alti nella storia della manifestazione), seco hanno generato un indotto pari a 11 milioni. La domanda è: se ne sono accorte le istituzioni dell’effetto traino delle imprese culturali? Forse no».
Quale impatto hanno gli eventi culturali sull’economia del territorio?
«È stata condotta una indagine da parte di Agis e Università Iulm, in collaborazione con Makno. Sale di cinema, teatri e festival stimolano l’economia e, al pari di un’infrastruttura o di un investimento immobiliare, attivano processi virtuosi di incremento della domanda di beni e servizi. Gli effetti economici e occupazionali di un evento derivano in primo luogo dagli investimenti e dalle spese attivati da gestori e organizzatori, sia pubblici che privati, per la realizzazione della loro attività».
C’è una specificità dei festival?
«Sì, così come degli eventi live dove hanno rilievo le spese effettuate dai turisti nella località dove si svolge l’attività culturale».
L’Arena di Verona ha condotto un’analisi dei dati per conoscere lo spettatore del Festival: 394.110 biglietti venduti nel 2018 (dal botteghino il 33 percento, da Internet il 46), il 31 percento di spettatori sono italiani, seguono tedeschi (19.74), inglesi (9.53). La prima Regione italiana è la Lombardia (28.5 percento), seguono Veneto, Emilia Romagna e Piemonte; ultima il Molise. Al Rof, per citare un altro esempio virtuoso, il 66.96 di presenze sono straniere, con una prevalenza complessiva di spettatori
maschi e un’età media elevata: gli spettatori under 55 sono il 41.2 percento. Tra gli italiani e appena il
20.4 percento tra gli stranieri, con un livello d’istruzione molto alto e un reddito superiore ai 50 mila euro per il 30.5 percento degli italiani e il 65.5 percento degli stranieri. Ma può fare esempi meno conosciuti, di piccole realtà?
«In Calabria, in provincia di Catanzaro, c’è il parco archeologico dello Scolacium, un teatro in pietra che non sarebbe facile, se fosse isolato, inserire in un contesto di rete culturale. L’abbiamo messo in contatto col Ravenna Festival, mettendo a disposizione il know-how di relazioni e conoscenze attraverso coproduzioni che possano consentire alle piccole realtà la presenza di grandi artisti.
Altra cosa importante è l’aggregazione sul territorio, che non riguarda solo il mondo dei Festival».
Può fare un esempio concreto?
«Ne farò due. Il distretto culturale Puglia Creativa, realizzato grazie alla lungimiranza della Regione che ha gestito bene i fondi europei, ha creato cento operatori che danno una mano al prodotto Puglia a essere presente in modo sinergico e strutturato, e noi lo abbiamo associato e fatto entrare, come distretto, nella nostra rete. Questo produce il vantaggio di entrare in relazione con ministero e operatori, acquisendo un maggiore potere contrattuale. Poi in Sicilia c’è la rete Area Sud. Si tratta di piccoli festival di nicchia, in provincia di Catania, Festival di zampogne o letture di poesie in paesini alle pendici dell’Etna. Ora vanno in giro per l’Italia, sono stati presenti al Salone del libro di Torino».
Malgrado il quadro desolante, siamo davanti alla Germania nel turismo culturale, grazie a quello che ci ha
lasciato la Storia.
«Se si vedono le statistiche dell’appeal del prodotto italiano, nessuno è davanti a noi. La differenza è che in Francia e in Germania la cultura investe nella cultura molto ma molto più di noi, che siamo allo 0.19 del Pil. Teniamo conto dell’unico elemento soddisfacente, e cioè che l’investimento del governo
sul Fus, il fondo unico dello spettacolo che rappresenta la principale risorsa economica ancorché non l’unica, dal 2018 è aumentato».
Siamo davvero l’Italia dei 1.000 Festival, oppure è un luogo comune?
«È una bella domanda. È troppo discrezionale per affermarlo. ItaliaFestival sta per lanciare una ricerca
specifica in merito. Spesso i Festival vengono inseriti in contesti più ampi, non congrui. C’è un tema nuovo in Italia, il fenomeno dei Festival di letteratura, di poesia, di filosofia che sono una peculiarità
del nostro paese. Non esistono altrove in Europa. O sono marginali. Credo che se li sommiamo a quelli performativi, superiamo il numero di mille».
Sono tutti necessari?
«…Rispondere è opportuno. Probabilmente no. Andrebbe meglio definito il concetto di Festival. Speso si considera tale una rassegna, oppure una manifestazione di lunga durata. Non vorrei essere impopolare,
ma ciò che si chiama Festival è una realtà che produce spettacoli che soltanto lì, in quel contesto, si possono vedere e ascoltare.
Non si tratta dunque di ospitare spettacoli in tournée. C’è un altro elemento».
Quale?
«Il Festival a volte si ripiega su se stesso. Ci sono contesti territoriali dove, malgrado gli spazi fantastici, avviene una mancata assunzione di rischio e di lungimiranza, e un eccessivo legame al concetto di sbigliettamento. Continuo a pensare ai Festival non solo come a realtà che convogliano gente, ma che esaltano territori con contenitori all’aperto. Perché, non dimentichiamolo, la maggior parte dei Festival si svolgono da giugno a settembre, anche se abbiano esempi autunnali, come Milano Musica per la musica contemporanea, o il MiTo a cavallo tra settembre e ottobre».
Il profilo del turista culturale è di una persona esigente, che all’80 percento si organizza il viaggio da solo.
«Da anni cerchiamo di combattere questo profilo. Abbiamo provato a convincere i tour operator a un accordo col nostro mondo e con associazioni di categoria, in modo di fare pacchetti specifici su presenze di turisti stranieri in Italia. I tour operator ci hanno confessato di non essere interessati all’outgoing,
in altre parole, portare lo straniero in Italia non è il loro business».
Il turista culturale, restando all’opera, viene più per le voci, per le edizioni critiche…?
«È complicato dare una risposta certa. Direi che dipende dai paesi di provenienza. Il turista americano è attratto dal contenitore, a prescindere dal contenuto, l’europeo allargando la lente ha una predilezione per il teatro contemporaneo, mentre quello asiatico, dalla Cina al Giappone, predilige il Rossini Opera Festival a Pesaro o Puccini a Torre del Lago».
Perché alcuni monografici decollano e altri meno, perché Rossini sì e Puccini no?
«Bisogna vedere l’epoca in cui sono nati. Talvolta c’è il tirare a campare, si tesorizza, si vive di rendita, sul nome del compositore che si ritiene sufficiente come marchio di qualità. Se posso spezzare una lancia a favore di Torre del Lago, si sta adoperando molto per coproduzioni internazionali con una politica intelligente di audience development».

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