Il successo dell’iniziativa che Italiafestival ha organizzato a Bari e Matera il 18 e il 19 maggio, non è passato inosservato sulla stampa. La sinergia con Teatri di Bari, Fondazione Matera 2019, Teatri uniti di Basilicata e Agis, ha alzato l’asticella del dibattito sui festival quali mezzo per la rigenerazione urbana e sociale attraverso la cultura declinata in più varianti.
PIERO NEGRI – La Stampa del 23 maggio 2018
L’Italia è il sesto mercato al mondo per la musica dal vivo, dopo Usa, Germania, Regno Unito, Giappone e Francia. Il mercato dei concerti cresce a livello globale ogni anno con percentuali a due cifre. Le ricerche più accreditate dicono che nel 2017 nel mondo si sono staccati biglietti per 5,65 miliardi di dollari. Nel 2016 non si era arrivati a 5 miliardi. I concerti sorreggono l’industria musicale e sono rimasti l’unica fonte di reddito abbastanza sicura per i musicisti (soprattutto se di una certa età; Rolling Stone scrive che tra i cento artisti con i maggiori incassi del 2017 ventitré hanno più di 65 anni e si chiede: cosa succederà quando si ritireranno, come annunciato, Elton John, Ozzy Osbourne, Neil Diamond e Joan Baez?).
In Italia, l’estate 2018 porterà tanti artisti italiani negli stadi, come La Stampa ha raccontato domenica. Vasco Rossi, una certezza, e anche Cesare Cremonini, la coppia Fedez/J-Ax, che si scioglierà nel momento dell’apoteosi a San Siro, Laura Pausini al Circo Massimo, i Negramaro. Si tenterà di far rivivere l’idea di festival, a Firenze dal 14 al 17 giugno (Foo Fighters, Guns N’ Roses, Iron Maiden, Ozzy Osbourne), a Milano nell’Area Expo dal 21 al 24 giugno (The Killers, Pearl Jam, Noel Gallagher, Queens of the Stone Age) e si continuerà a chiamare «festival» ciò che quasi sempre è un cartellone di concerti.
Il festival, la formula che in tutto il mondo ha il più alto indice di crescita (l’ultimo Coachella in California ha incassato 114 milioni di dollari) prevede una concentrazione in pochi giorni, con artisti tutto il giorno, campeggi all’interno di una vasta area chiusa e auspicabilmente possibilità di scelta tra diversi palchi. Da noi non ha mai funzionato, per ragioni di spazio (non abbiamo deserti a disposizione né aree disabitate come a Woodstock, ma centri storici meravigliosi, arene e teatri millenari) e soprattutto culturali: da buoni cattolici, vogliamo almeno due ore di messa cantata, non ci piace il politeismo di chi va e ascolta Beyoncé per mezz’ora dopo essersi gustato – come accade a Coachella – magari David Byrne, oppure i Fleet Foxes.
In un momento in cui il settore sta crescendo da molti punti di vista, per esempio con l’ingresso dei principali operatori italiani in conglomerati internazionali, si ha l’impressione che la società, o parte della società, non abbia del tutto compreso quanto il business del live sia diventato una cosa seria. Si proibiscono ancora concerti in piazza in nome di una risibile valutazione di qualità (la storia bolognese del no a Lo Stato Sociale è a pagina 25), si tratta il pubblico della musica come quello del calcio o delle partite sul maxischermo, ignorando precedenti storici e intrinseche differenze chiare a chiunque a un concerto ci sia stato almeno una volta. Realtà interessanti nascono perlopiù in provincia (Collisioni a Barolo, il Lucca Summer Festival, il Siren a Vasto, il gioiellino Mojotic a Sestri Levante), non senza difficoltà e, quando va bene, con notevoli problemi di crescita. Eppure gli studi sulle ricadute economiche positive dei festival e dei concerti esistono, e sono anche credibili. Qualcuno fuori dal ristretto circolo degli addetti ai lavori dovrebbe cominciare a leggerli.