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Raf Vallone ricorda Beppe De Santis

Raf Vallone non ebbe alcuna remora nel ricordare il carattere non facile di Beppe De Santis, pronto al confronto ma irremovibile nelle sue scelte e soprattutto in quello che credeva giusto, e per darcene un esempio ci raccontò di quando non volle modificare la battuta di una sceneggiatura. Non ci fu nulla da fare, s’impuntò, irremovibile e, con lui, i produttori che si defilarono. “Non era uno stravolgimento – precisò Vallone – della battuta, solo una limatura. Per Beppe, quella battuta aveva un significato per la comprensione sequenza, e dello stesso film. Non voleva equivoci. Cercai di mediare per quanto mi fu possibile, inutilmente, non ci fu verso, non voleva compromessi, credeva fermamente alle sue idee, e non ammetteva alcuna censura: “Così o non se ne fra niente!”

Vallone ricordò l’episodio alla presenza di Beppe nel corso della rassegna cinematografica “De Santis e i suoi film”, organizzata a Fondi dal Festival del Teatro Italiano nella sezione dedicata al cinema nell’agosto del 1987, alla quale collaborò l’Officina, lo storico cineclub romano diretto da Paolo Luciani, tra gli ideatori di Blob, la rubrica di successo di Rai3. De Santis abbozzò un sorriso, poi pose una mano sulla spalla di Vallone, confermando tutto, e replicò: “Se si cede su una battuta, si finisce per scardinare i contenuti e stravolgere l’idea guida, col risultato che il film sarà del produttore e non del regista, non ti sembra?”. Anche nel lungometraggio “Nella terra della pace e degli ulivi” girato da Stefano Mari, Vallone ricorda lo stesso episodio, e anche le giornate trascorse con Lucia Bosè nel corso della lavorazione di “Non c’è pace tra gli ulivi”.

L’arena, con il grande schermo, fu allestita in piazza Matteotti, l’area lastricata antistante al palazzo che ospitò Giulia Gonzaga e il castello baronale che ricorda gli antichi servaggi feudali cui erano soggetti la campagna e i suoi abitanti. Tutte le sere si riempiva di spettatori, tra i quali molti forestieri e anche tanti fondani che potevano finalmente conoscere per la prima volta tutti i film girati da Beppe. E tra questi non pochi che avevano fatto la comparsa in “Non c’è pace tra gli ulivi” e in “Giorni d’amore”, il film con Marcello Mastroianni e Marina Vlady. E appena si riconoscevano, si alzava un animato vocio, prima contenuto, poi più alto e distinto: “Quello è proprio Andonio”, “No, è Pasquale!”. Poi una voce stentorea s’imponeva sulle altre “ Quello sono proprio io, so’ proprio Andonio”, e tutti a ridere e ad applaudire. Beppe fu lieto della calorosa accoglienza dei concittadini e soprattutto dell’entusiasmo dei paesani che si rivedevano giovani dopo diversi anni. Beppe era felice della risposta dei fondani alle sue opere, così decise di presentare ogni sera il film in programma.

La rassegna, come le altre che la precedettero, si poteva ben definire una “antologica” d’eccezione con tutti i film girati da Beppe, e ovviamente non poteva mancare la tavola rotonda d’apertura alla quale prese parte Guido Aristarco, Massimo Mida Puccini, Raf Vallone, Pietro Ingrao, Antonio Parisi, Il sindaco Arcangelo Rotunno, Antonio Parisi, autore di un saggio su De Santis, e Franco Portone nella veste di moderatore. Nell’introdurre la discussione, rivolto ai partecipanti, pose due domande: “Perché questa è la prima rassegna dedicata in Italia all’intera opera di Beppe?”; “Perché un maestro del cinema italiano, tra i maggiori della stagione neorealista non gira più un film dal 1970?”

Il primo a prendere la parola fu Massimo Mida che inquadrò l’opera di Beppe in un contesto storico e culturale diverso ormai dai primi anni del dopoguerra, nel quale l’impegno civile era preminente per molti uomini di cultura. Il miracolo economico e la “commedia all’italiana” modificarono gli orientamenti del pubblico e soprattutto dei produttori. “In sintesi – concluse – per Beppe il cinema non può essere disgiunto dall’impegno civile”, dello stesso avviso fu Guido Aristarco – sceneggiatore, storico e critico cinematografico – che indicò nel sistema produttivo la chiusura nei confronti del regista. “De Santis – concluse – è un regista fermo nelle sue idee che non gradiva per niente il cinema cosiddetto d’intrattenimento”.

Su Aristarco è necessario aprire una parentesi, che può essere utile ai giovani per comprendere i primi anni della nostra Repubblica. Nel 1953 fu arrestato assieme a Renzo Renzi con l’accusa di vilipendio alle forze armate, solo – meditate – per aver scritto la sceneggiatura di un film mai prodotto, “L’Arnata s,agapò”, ambientato in Grecia, durante l’occupazione nazifascista, che avrebbe dovuto far risaltare la naturale predisposizione dei nostra soldati a fraternizzare con la popolazione affamata. Aristarco, come Beppe, era un intellettuale fermo nei suoi principi, non gradiva per niente il cinema d’evasione veicolato dalla Rassegna di Massenzio voluta da Nicolini, cominciando con i polpettoni storici di Cecil De Mille.

I primi a essere abbagliati da questa cinematografia furono quelle frange dei movimenti giovanili cosiddetti rivoluzionari e lottacontinuisti che subivano il riflusso, rientrando silenti nell’ovile delle convenienze. Sono gli stessi che poi hanno mitizzato il cinema monnezza, i film polizieschi di serie b per finire ad Alvaro Vitali, convinti che documentassero la realtà del nostro paese.
E’ senz’altro vero, non gli si può dare torto, difatti quel cinema testimonia da dove parte la deriva culturale del nostro Paese, il progressivo impoverimento della qualità del nostro cinema. Gli altri interventi, come quello di Ingrao, che aveva rapporti di antica amicizia col regista, invece di rispondere alle mie domande, le proponeva a se stesso: “ Si può condannare alla disoccupazione un regista delle capacità di Giuseppe De Santis”, la risposta era implicita: certamente, no!”!

La rassegna ebbe una notevole eco nei mass media, con notizie, servizi interviste, tanto ampia che in molti ebbero la prova certa che i film di Beppe erano ancora vivi nell’immaginario collettivo. I film più citati furono “Riso amaro”, “Non c’è pace tra gli ulivi” e “Roma, ore 11”, con le foto di Silvana Mangano, Lucia Bosè, Lea Padovani, Raf Vallone, Vittorio Gasmann. La foto della Mangano nella veste di mondina era uno schianto: gli “hot pant”, forse il più famoso di sempre, metteva in risalto il nitore delle sue gambe, mentre l’attillato maglione, in dotazione alla’Ottava Arnata di Montgomery, accentuava le forme del seno, un’immagine che divenne un’ icona dell’eterno femminino in Italia e all’estero. Ancora oggi, in tempi di caduta di ogni velo sulla nudità, la sua immagine stimola non poco la fantasia di chi la guarda.

L’interesse mediatico ripropose all’attenzione dell’industria cinematografica il nome di Giuseppe De Santis, tanto che un produttore gli propose la realizzazione di un film, indicando la somma disponibile di quattro miliardi di lire. Beppe sul momento accettò l’offerta, proponendo una storia sul “terrorismo rosso” che fu accettata, dando inizio alla lavorazione preliminare. Purtroppo il progetto cominciò a gonfiarsi, e le spese lievitarono fino a superare la cifra disponibile. Il produttore, dopo aver fatto di tutto per trovare altri finanziamenti, dovette arrendersi: si era alzato un muro, uno spesso muro di gomma. Beppe non volle ridimensionare il suo progetto e tutto finì nel nulla. Tra le cause del fallimento si vociferava la latente ostilità dei politici per la sua ostinazione al cinema d’impegno civile la conseguente chiusura del sistema produttivo. “Beppe è ormai un naufrago abbandonato al suo destino” così la pensavano gli amici più intimi.

In verità il suo grande desiderio era di realizzare un film sui contadini di Andria dove era nata sua madre. Era interessato al proletariato agricolo, ai braccianti come Giuseppe di Vittorio ( tra i protagonisti del sindacalismo italiano del dopoguerra, che negli anni della sua infanzia imparò l’italiano sul Melzi, memorizzando i vocaboli e i lori significati). Beppe era meravigliato dallo sforzo dell’uomo per rendere fertile le Puglie, dalla Capitanata al Salento, un paesaggio, esclusa la Daunia, caratterizzato da terre di quinta e sesta classe, in sostanza di rocce affioranti, conquistate all’agricoltura, palmo a palmo, e ricoperte di humus tolto ai terreni più fortunati. Se si viaggia in aereo, si potrà avere la visione di questo miracolo con le ampie distese di verde cupo degli ulivi e del pallido verde della vite.

Chi avrà percorso l’altopiano delle Murge fino alla Valle d’Itria avrà ammirato la magnificenza di un paesaggio interamente umanizzato, che sembra partorito dalla fantasia si Lewis Carroll: i trulli dai tetti conici, candidi di calce viva disseminati negli appezzamenti, come un gregge disperso nella campagna. Eredità del neolitico, ognuno circondato dai reticoli dai muri a secco che delimitano le proprietà, ma anche per accumulare l’umidità della notte e renderla alla terra, un mezzo efficace contro la siccità diurna. Conquista del fiero orgoglio cittadino che non si prostrò il 3 aprile del 1930 a un iniquo balzello daziario, e, non ostante la dittatura, e sicuro delle sue ragioni, alzò la testa contro il sopruso. La protesta divampò spontanea, coinvolgendo anche altre categorie, e per evitare la sua estensione nelle altre province, le autorità fecero marcia indietro, Compresero, memori del ribellismo pugliese, che era meglio spegnere subito un incendio che avrebbe potuto estendersi in altri comuni.

Beppe era fermamente convinto di realizzare un grande affresco sull’epopea contadina, e ne parlava come di un film in lavorazione. Descriveva le scene, le sequenze, il panorama del tavoliere e delle gravine, i luoghi e gli abituri dei braccianti di Andria che si alzavano alle tre del mattino per raggiungere le campagne; e poi i primi piani dei volti arsi dal sole canicolare dei giorni della mietitura, e le loro donne, accumunati da un unico destino di lavoro e di sacrifici. Il film era già realizzato nella sua mente, in attesa del ciak! Invece giunse inopportuna la commare secca che si portò via Beppe e il sogno più caro legato alla sua genitrice e alla terra, madre di tutti gli uomini. Con lui perdemmo un maestro, un amico e l’ultima delle sue opere.